A ridosso dell’8 marzo, lo “Zio Peppino”, firma anonima di Cronaca Eugubina, ci consegna un inquietante editoriale che ancora associa le minigonne all’immoralità e descrive una Gubbio in mano a giovani teppisti.
L’8 marzo, da qualche anno, per qualcuno è un giorno complicato. Lo è per chi non si spiega come mai venga guardato storto se fa gli auguri a una donna, lo è per chi cura il marketing delle aziende e ancora non ha capito che basta con le email dall’oggetto “Per te che sei unica, il 25% di sconto” (quando gran parte delle donne italiane non è indipendente economicamente e/o non lavora, pur desiderandolo) e lo è anche per gli zio Peppino.
Sulla prima pagina del numero cartaceo di Cronaca Eugubina del 7 marzo 2025 troviamo un breve e inquietante editoriale dello zio Peppino, firma che ogni tanto compare sul periodico di informazione locale.
Non si sa chi sia zio Peppino ma potrebbe costituire l’archetipo dell’uomo medio o, forse, del boomer medio che punta il dito su questi giovani tutti molesti, una generazione perduta.
Lo zio parte da un fatto di cronaca dello scorso gennaio, quando una decina di automobili in sosta fra il centro di Gubbio e la prima periferia sono state danneggiate e ci dice che quella notte, guarda caso, la città e il centro erano pieni di ragazzi giovanissimi e che “le Forze dell’Ordine intervennero per atti vandalici e risse”.
Zio Peppino dice in sostanza che dobbiamo fare due più due, lasciando intuire che i responsabili dei danneggiamenti alle auto siano da ricercare fra questi giovanissimi che quella notte popolavano la città. Sul punto, non abbiamo elementi per esprimerci.
Tuttavia, è degno di nota quanto viene scritto subito dopo: l’editorialista di Cronaca Eugubina parla di giovani e rabbia, insoddisfazione e disagio sociale, di mancanza di punti di riferimento e di valori e si chiede quale sia il ruolo della famiglia oggi.
Me lo chiedo anche io, specialmente leggendo le righe successive: “Il venerdì sera vedere una ragazzina di 14 anni in minigonna alle tre della notte in giro per la città è civile o immorale?“. Mi chiedo con preoccupazione, infatti, se i nostri ragazzi vivano in famiglie dove l’adulto di riferimento si esprime in modo tale da lasciar intendere che esista un velo di licenziosità rispetto all’immagine descritta dallo zio Peppino.
Sarebbe interessante capire cosa sia a preoccupare nello specifico lo zio Peppino: è la libertà di una 14enne di girare da sola alle tre di notte? E perché parla al femminile? E se fosse un ragazzino, maschio, di 14 anni a girare di notte da solo? Oppure, a preoccuparlo è la minigonna? Se sì, perché?
A 14 anni, per la legge italiana, sei appena diventato grande quel tanto che basta perché tu possa essere lasciato a casa o fuori in strada da solo e sei considerato in grado di dare il tuo consenso sessuale. Questo è il tracciato che la legge ci mette a disposizione, una linea guida che poi ha le sue eccezioni e che comunque trova il suo bilanciamento nell’educazione, nella pedagogia e nel buon senso.
Assurdo e diseducativo è, per esempio, indicare un capo d’abbigliamento in particolare come pericoloso o, come dice zio Peppino, “immorale” e mi sembra ridicolo dover spiegare il perché, al giorno d’oggi. Ma probabilmente la mia è una ingenua illusione, perché effettivamente sono ancora tante le persone che individuano in un certo tipo di abbigliamento quel seme della provocazione che istiga alla violenza.
Lo zio Peppino usa proprio il termine “provocatori” all’inizio del suo editoriale, per riferirsi ai giovani e dice che sono questi, e non i malviventi, a fare paura.
Mi sembra il ritratto dei tempi di oggi: gli adulti, che davvero adulti non sono, completamente disorientati e impauriti dalla libertà di pensiero dei più giovani. E dico che gli adulti di oggi tali non sono perché adulto è chi è in grado di compiere delle scelte e prendersene la responsabilità e chi sa farsi carico delle proprie fragilità.
E invece, no. L’adulto di oggi è il figlio dei tempi trascorsi ma non ancora completamente andati e, invece di sapere e insegnare che esistono confini da rispettare, libertà inviolabili e permessi da chiedere prima di entrare nella sfera dell’altro, si fa piccolo, piccolo e si rifugia dietro alle presunte provocazioni subite.
“Sì, ho violentato, ho picchiato, ho urlato, sono stat* aggressiv*, ho costretto, ho ricattato, ho ucciso, ho avuto un raptus, ero arrabbiat* ma lei/lui prima ha fatto X“. Questa è inciviltà. Non la minigonna sulla 14enne in giro di venerdì sera.
Il disagio giovanile, di cui si accenna nell’editoriale, esiste a va sicuramente preso in consegna ma dovremmo farlo innanzi tutto dopo aver lavorato su di noi ed esserci liberati di tutte quelle gabbie mentali obsolete e pericolose, che vengono da lontano.
A quel punto sapremo accogliere i nostri ragazzi, guidarli ed educarli. All’affettività, per esempio. Che non vuol dire insegnargli a essere promiscui o indurli verso chissà quale via.
Vuol dire parlare di rispetto, per sé e per l’altro.
“I bravi ragazzi sono come i bambini bravi, non esistono. Ci sono i ragazzə e ci sono i bambinə. Gli aggettivi che attribuiamo a qualcuno sono soggettivi, non assoluti.”
Valentina Tollardo
Psicologa, psicoterapeuta