La sala Podiani del museo perugino accoglie L’età dell’oro, un affascinante appuntamento espositivo che si avvale del patrocinio del Dicastero per la Cultura e l’Educazione della Città del Vaticano.
Curata da Alessandra Mammì, Veruska Picchiarelli e Carla Scagliosi, la mostra propone cinquanta capolavori di artisti quali il Maestro di San Francesco, Duccio di Boninsegna, Gentile da Fabriano, Taddeo di Bartolo, Niccolò di Liberatore, Bernardino di Mariotto, il Maestro del Trittico del Farneto, Bartolomeo Caporali e altri, in gran parte provenienti dalla collezione della GNU, in dialogo con opere di grandi autori contemporanei, tra i quali Carla Accardi, Alberto Burri, Mario Ceroli, Gino De Dominicis, Yves Klein, Jannis Kounellis, Marisa Merz, Mimmo Paladino, Michelangelo Pistoletto, Andy Warhol, capaci di disegnare un itinerario assolutamente unico che, in nome dell’oro, vede creazioni impermeabili a una lettura cronologica, ma in grado di affrontare un colloquio con un’altra epoca, facendo parlare i simboli, le forme, l’essenza più intima dell’opera e dell’arte stessa.
All’interno del percorso s’incontra inoltre il dipinto Le tre età (1905) di Gustav Klimt, autore per il quale l’oro ha rivestito un ruolo fondamentale, concesso straordinariamente in prestito dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, e rimasto in Umbria, dopo essere stato protagonista alla GNU, dal 28 giugno al 15 settembre scorso, dell’iniziativa Un capolavoro a Perugia.
L’oro, il re dei metalli, non soggetto a ossidazione e inalterabile all’acqua e all’aria, malleabile eppure forte, dalla natura quasi sovrannaturale, che compare già nelle sepolture del tardo Neolitico come degno di un’offerta agli dèi per la sua forza, acquista nelle arti visive il potere di trasformare la figurazione in manifestazione stessa del sacro e della luce celeste.
“È l’arte – afferma Costantino D’Orazio, direttore Musei nazionali di Perugia – Direzione regionale Musei nazionali Umbria – a farla da padrona in questa mostra, e in particolare lo è uno dei suoi elementi decorativi più consueti, l’oro. Simbolo dell’incorruttibile eterno e allo stesso tempo causa primigenia della più abietta corruzione umana, questo metallo scaturito dalla terra che, pur senza esserlo in origine, diviene pigmento, è utilizzato dagli artisti fin dagli albori della civiltà e trasmigra da un’epoca all’altra senza mai perdere il suo significato. L’oro ci consente quindi di guardare alle opere del passato con gli stessi occhi con i quali guardiamo il nostro contemporaneo, astraendolo dalla dimensione temporale per immedesimarci nel valore simbolico e senza tempo di ogni singolo oggetto, arrivando a scoprire qualcosa di nuovo”.
Il percorso espositivo, che si dipana tra opere che, per assonanze tecniche ed estetiche, propongono nuovi confronti, suggestioni e prospettive, spalancando inediti orizzonti di interpretazione, si apre con la straordinaria collezione di “fondi oro” della Galleria Nazionale dell’Umbria nella quale ben si inserisce il capolavoro seminale di Michelangelo Pistoletto, Autoritratto oro del 1960. Si tuffa quindi nel XIII secolo quando il Maestro di San Francesco introdusse nella pittura su tavola raffinatissime tecniche di lavorazione della foglia d’oro. La sua Deposizione del dossale di San Francesco al Prato è accostata al Monochrome sans titre realizzato da Yves Klein per il santuario di Santa Rita da Cascia, per il medesimo afflato spirituale e l’uso del purissimo blu oltremare che li caratterizza.
Con Duccio di Boninsegna si assiste a una ulteriore evoluzione in termini di complessità ed eleganza di queste abilità di lavorazione dell’oro, che interessa la stagione più fulgida dell’arte senese nella prima metà del Trecento, quando si raggiungono anche nell’oreficeria dei vertici insuperati di virtuosismo e finezza.
La sua Madonna col Bambino e sei angeli (1304-1310), immagine di nascita e morte, confermata dall’ansia del bimbo che cerca gli occhi della madre, dal velo leggero che lo avvolge prefigurando un sudario e dallo sguardo severo della Madonna consapevole del destino del Figlio, dialoga con il Concetto spaziale su fondo oro di Lucio Fontana, proveniente dalla Fondazione Prada di Milano, che appare come una diretta evocazione della potenza simbolica dell’icona, rafforzata dal gesto umano della lacerazione sulla tela.
Seguono due magnifici reliquiari: quello di santa Giuliana di Cataluccio di Pietro da Todi, che conteneva il cranio della martire e accoglie invece in questa occasione la testina femminile dorata di Marisa Merz che conserva il potere e il sapore di una reliquia, estrema traccia pagana che resiste nella liturgia cristiana, e quello di Montalto, attribuito a Jean du Vivier, manufatto di pregiatissima fattura di oreficeria francese della fine del XIV secolo, appartenuto in passato a Carlo V di Valois e Lionello d’Este e donato poi da Sisto V alla cittadina marchigiana d’origine, che si affianca all’ex-voto che Yves Klein dedicò a Santa Rita da Cascia, donato dall’artista francese al convento delle Agostiniane della cittadina umbra, quale ringraziamento per aver superato una delicata operazione al cuore; entrambi i lavori sono caratterizzati dall’abbinamento dell’oro con lo smalto traslucido, tecnica estremamente elaborata messa a punto proprio a Siena sul calare del Duecento.
L’apice della ricercatezza e dello splendore, per l’uso dell’oro nelle arti, si consegue all’inizio del Quattrocento con la piena maturazione del gusto tardogotico, di cui è prova luminosa la Madonna col Bambino di Gentile da Fabriano, con l’evanescente apparizione dei suoi angeli graniti che evoca l’altrettanto incorporeo Sacerdote di Michelangelo Pistoletto, schiacciato in una bidimensionalità bizantina, protetto da un’architettura goticheggiante che si staglia sull’oro del fondo; lo stesso che pian piano crescerà in una serie di autoritratti dagli effetti sempre più riflettenti, come evidente precursore dei quadri specchianti.
Proseguendo nel percorso storico, il più rustico Maestro del Trittico del Farneto, che muove proprio dai modelli di Gentile, orchestra intorno ai temi della morte e della fine dei tempi una composizione dai complessi significati simbolici, in cui i motivi della stella e dei dardi suscitano un accostamento suadente con l’opera di Gilberto Zorio Stella di giavellotti, icona per eccellenza nel vocabolario visivo dell’artista piemontese, simbolo magico ed esoterico che attraversa le culture, con le punte che simboleggiano i cinque elementi metafisici di Aria-Acqua-Terra-Fuoco-Spirito.
Sono ancora suggestioni visive, semantiche e iconografiche a ispirare dialoghi come quello fra la bellezza smaterializzata della Golden Marilyn 11.40 di Andy Warhol e l’Angelo dalla Pala dei cacciatori di Bartolomeo Caporali, l’Oroblu (Oriente) di Carla Accardi e il manto in tessuto operato della Madonna col Bambino del Maestro della Madonna di Montone, o La Maddalena tutta “mentale” di Fausto Melotti e la santa dalle lunghe chiome e dalle vesti opulente dipinta da Taddeo di Bartolo per il Polittico di San Francesco al Prato.
Tra le associazioni più liriche, spicca quella fra la Crocifissione della Pinacoteca Comunale di Terni di Niccolò di Liberatore, in cui la nota dominante è il nero, colore del lutto e della disperazione, e la Tragedia civile di Jannis Kounellis, dove un attaccapanni che si staglia davanti a una parete ricoperta da lamina dorata conserva un cappello e un cappotto nero, evocando una tragedia e diventando simbolo della presenza dell’uomo nella storia. Di questa opera saranno esposte per la prima volta insieme le due versioni, una realizzata nel 1975, proveniente dal Kolumba, il Museo d’Arte dell’Arcidiocesi di Colonia (Germania), l’altra realizzata nel 2009, di proprietà della Galleria Alfonso Artiaco di Napoli.
Nel momento del passaggio fra Medioevo e Rinascimento, in ossequio al principio dell’arte quale mimesi della natura, la foglia d’oro scompare dagli sfondi dei dipinti per essere progressivamente confinata in parti marginali e accessorie della figurazione, come le aureole, per poi svanire quasi del tutto. Restano però alcune singolari eccezioni, come la produzione dell’eccentrico Bernardino di Mariotto, che nel Cinquecento inoltrato continua a distribuire copiosamente nelle sue opere lamine baluginanti e dettagli in gesso rilevato e dorato, ad esempio nell’Incoronazione della Vergine, abbinata nel percorso espositivo al Diadema di Giulio Paolini.
In epoca moderna il più prezioso dei metalli continua a essere utilizzato diffusamente in altre tecniche artistiche, anche al di fuori dell’ambito dell’oreficeria, come nella miniatura, come dimostrato dalle magnetiche visioni di Cesare Franchi detto il Pollino, rilette in chiave attuale da Elisa Montessori.
Oppure nell’arte tessile, dove abbonda l’uso dell’oro nella moda delle classi più elevate e soprattutto nei paramenti liturgici. Particolarmente esemplificativo, a questo proposito, è il dialogo tra gli Scarabei stercorari di Jan Fabre, con i loro simboli cristiani, e lo splendido piviale ricamato appartenente al cinquecentesco parato Armellini del Museo del Capitolo della Cattedrale di San Lorenzo.
L’allestimento è un’evoluzione del progetto realizzato a Venezia in cui la stella come forma chiusa, che consentiva di ammirare i confronti tra coppie di opere girando intorno alla struttura, si apre al visitatore attraendolo verso il fulcro ideale, dove è l’unico confronto in cui un’opera si compenetra nell’altra, e da qui poi proiettandolo verso l’esterno, come spinto da una forza centrifuga, che gli consente di muoversi liberamente in ogni direzione verso l’incontro con tutti i capolavori della mostra.
L’astro è interpretato come simbolo primordiale di luce dorata e brillantezza che si riflette in tutti i piani dello spazio, da quello orizzontale con la stella esplosa, visibile anche dall’alto grazie all’affaccio verso la sala, al verticale con l’opera di Zorio, che reitera nuovamente la forza simbolica della forma nella sua semplicità e armonia.
Accompagna la mostra un catalogo Silvana Editoriale con testi di Josè Tolentino de Mendonça, Simone Casini, Costantino D’Orazio, Alessandra Mammì, Veruska Picchiarelli, Carla Scagliosi, Antonino Tranchina, Alessandro Vanoli.