Francobaldo Chiocci, storico giornalista andato e tornato da Gubbio mentre girava mezzo mondo, più di due decenni fa scrisse un articolo sulla Città di Pietra per spiegare perché non scrivesse più articoli su Gubbio. Non pubblicò neppure quello. Dopo averlo ritrovato in un cassetto, ha acconsentito alla pubblicazione, nonostante sia datato. Anzi, proprio per quello, come amarcord di una vecchia Gubbio non troppo lontana da essere dimenticata né troppo vicina da essere contemporanea.
“Sono un eugubino voglioso di restarlo. Facevo un mestiere che mi consentiva sovente di scriverlo per vantarmene. Eppure non scrivo più su Gubbio. Talvolta ne ho rimorso, talaltra mi giustifico, ora mi confesso.
Il mio silenzio ha due origini, una caratteriale e l’altra storica. La prima è che sono un pigro mancato. Se posso fare il pigro, mi assolvo volentieri. La seconda, collegata alla prima, è il pretesto di una lontana ripicca, di quando venne a Gubbio per i Ceri, da primo ministro, Aldo Moro. Lo invitò un presidente di Comitato romano del Maggio Eugubino di allora, il commendator Fausto Finetti, credo che fosse un funzionario di Palazzo Chigi. Il sorriso mesto di Moro non era ancora una premonizione di tragedia. Sembrava anzi un vincente, aveva inventato da poco il centrosinistra. Non veniva soltanto a vedere la festa dei Ceri, ma anche ad onorarla per esserne onorato.
Comprensibile. Ma a me parve egualmente straordinario che, invece di soli applausi, si fosse preso anche i fischi. Per il mio giornale (ogni 15 maggio mi facevo mandare come inviato a Gubbio, così risparmiavo le ferie) montai l’episodio, il quale assunse una coloritura politica che in realtà non aveva. Quei fischi non significavano ostilità ideologica, erano umore ceraiolo.
Per i Ceri non esistono ospiti illustri, esistono protagonisti parigrado. Un teleoperatore amico, il leggendario Tonini, mi disse che tra i cannibali di Kindu, i vietcong di Saigon, i boia chi molla di Reggio mai aveva provato tanta strizza come quando lo rotolarono dal monte con la milleotto della Rai che andava più piano dei Ceri in corsa verso Sant’Ubaldo. Riuscì però a capire che, in un popolo di videoti che fanno manina davanti alla TV, quel gesto non era screanzato. Era civiltà.
Anche i fischi a Moro, per me, erano civiltà. Ma vallo a far capire. Averli raccontati mi procurò molte indignazioni. Il povero Finetti era furioso. Se ne parlò anche in consiglio comunale. Inutili furono le mediazioni di qualche saggio (mio cugino Pietro Chiocci, Cenisio Zoppis, don Origene, l’ingegner Cecchini) affinché mi pentissi pubblicamente. Non volli pentirmi. Più tardi mi capitò di andare in Urss al seguito di Moro sul suo stesso aereo per uno dei suoi ultimi viaggi da ministro degli Esteri. Me ne pentii privatamente con lui. Ma era acqua passata e, tutto attorcigliato alla sua paura di volare, riuscì soltanto a borbottare qualcosa di rassegnato e molto moroteo (“magari tutti i fischi fossero come quelli…”), qualcosa che mi parve perdono.
E adesso son qui a pentirmi anche di una lunga negligenza. Tanto più colpevole in quanto, adesso, essere e dichiararsi eugubini è una referenza che allora non era. Gubbio, nel frattempo, è straordinariamente cresciuta in notorietà e attrazione. Pensate alla prateseria di un Malaparte, alla napoletaneria di un Marotta, alla rimineria di un Fellini. Se ci fosse un eugubino del loro calibro, appenderebbe il blasone al suo onor comunale e al modo tutto suo, tutto eugubino, di vedere e giudicare la restante umanità. Una volta, invece, non dico che ci si vergognasse di essere di Gubbio. Leo, mio fratellastro e mio cugino Alberto Pinoli quando andavano a far la vita a Roma o a Cortina dicevano, per sembrar più cittadini, che erano di Perugia.
Una volta scoprivano Gubbio e gli eugubini soltanto alcuni stravaganti giramondo. Con emozione pari alla sorpresa di vederlo riprodotto come un attestato di riconoscenza turistica, lessi in uno dei primi numeri de L’Eugubino un magistrale ritratto psicologico sulla nostra città: era datato 1907 e firmato da un “certo” Herman Hesse, il più rinomato scrittore tedesco moderno dopo Thomas Mann e la più eccitante scoperta giovanile nata dal dissesto delle dottrine e dalla voglia di viaggi alternativi. Adesso Gubbio possono scoprirla e conquistarla tutti. Anche i dinosauri in tournee museali…
Per il turismo colto, non è un viaggio alternativo. È un itinerario obbligatorio. Merito, in parte, anche di quei lontani primi anni del Maggio Eugubino e delle ore piccole che, da ragazzotti, facevamo nella tipografia di Dadilo. Ricordo la gotta, i sacramenti e gli occhialetti del favoloso sguardo scettico e iracondo di quel proto borbottone ogni qualvolta doveva ripescare nel cassetto, tra la muffa del piombo, uno ad uno, i caratteri a mano che, su ordine di Lele Nucci, eterno redattore capo, servivano per mettere le maiuscole agli esclamativi di Mario Rosati, al latino di don Origene, alla glottologia di Lolo Benvenuti, ai comunicati del Comitato Romano. E Cesarino, e Patrizio, e il sor Pio che si dannavano sui conti. E io, Italo Cicci, Guidobaldo Angeletti, Lamberto Presciutti, Tonino Bossola, Sandro Nardelli, Peppe Filippetti. Teodolo Manganelli, Piero Angeletti già con la vocazione di scienziato e gli altri pari nostri, tutti a caccia di farfalle letterarie altrui per adeguarle agli Enei, agli Stirati, ai Nuti (il Parnaso di allora, con Marvardi, la Francardi e il grande Pietro Ubaldi detto Book), i quali, quando discettavano di Gubbio, evocavano conchiglie fossili per ascoltare murmure della storia o filosofavano, a scorno di sbrigativi come il sindaco Bei e l’assessore Peppana, sui massimi principi dedotti dal minimo cittadino.
Facevamo gratis i ciceroni con i turisti, più volentieri con le turiste. Già allora, il più volitivo e affabulatore, con la sua visione eugubinocentrica del mondo, era Giorgio Gini; mentre un altro fervido mentore, il dottor Menichetti, ancora sconosciuto come benemerito scopritore di antichi statuti e ricette desuete, si esercitava nella pittura astratta dopo che quella naif aveva prosperato nella vicina bottega di arrotino del Colonnello, il Ligabue di noialtri. Il Pacio, appena diventato maestro elementare a Burano, prima delle aste insegnava a disegnare gli esagoni dei Ceri. Gli sbandieratori, portati alla gloria in tutto il mondo da Fefè, non pensavano di diventare bandieranti. Come guide, noi non prendevamo percentuali dai sor Giovanni e dai Baffoni ceramisti in Piazza Grande. Propagandavamo l’irripetibile Aldo Ajò come un Picasso locale e Alberico Morena, a nostra insaputa, cominciava a incidere all’estero, a Spoleto, xilografie di rubizzi eugubini pagani, e Pietruccio Rampini disegnava i nostri papiri universitari. Il Castrino faceva l’antiquario da reduce della Pampas, Renato Rossi stampava più beffe che foto, Umberto Ajò già poetava al caffè della Caterina col Pachito che lo aspettava per concordare l’ora X della rivoluzione. L’amor bucolico si faceva a Zappacenere, il clandestino al Voltone, il venale al teatro romano. E tutta la Gubbio odierna sonnecchiava in progenitori ignoti, Barbetti ancora non commendatore, i Colaiacovo ancora senza elicottero, Lamberto Cecchini il solo mecenate, Omero Niri e il barbiere Zenobi i soli appuntamenti vip, il giornaletto “Il ciufolo” il solo taglio e cucito a mezzo stampa. Nel calcio, ancorché nel ’47 fossimo stati brevemente promossi in serie B con uno stadio che era una sassaia recintata come un pollaio, più dell’allenatore (il leggendario Masetti ex portiere della Nazionale) furoreggiava quella sventola zingaresca e popputa di sua moglie. E tutto un gossip da bocca di rosa coinvolgeva giovanotti atletici e attempati inquattrinati.
Vestivamo alla paggetta, impavidi e malaccorti dietro l’innata solennità consolare di Adolfo de Borio, l’improntitudine banditoresca di Limonero, il microfono flautato di Giovannini. Totino Rossi aveva disegnato i primi panneggi giotteschi per farci fare gli araldi dei Guglielmi Tell coi corpetti di cuoio e le pance gonfie di birra venuti dalla Svizzera per il Palio della Balestra diventato internazionale. Stonavamo sui tamburi e i trombetti le cadenze preparate dal professor Biondi.
Pittavamo, su geniale plagio di Lamberto Presciutti, la coppietta blu dei baci Perugina sui fondali dei Veglioni dell’800, unica fonte di finanziamento del sempre squattrinato Maggio Eugubino. Facevamo cadere il Cero, soprattutto Sant’Antonio, ma cominciammo ad organizzare le mute.
Fu una stagione autarchica e pionieristica, ma non la criticò neppure l’avvocato Terradura, staffile ironico e scettico di ogni impresa. Allora, a Gubbio, per passare il tempo prima e dopo i Ceri, o ci si fidanzava in casa o si andava al “Maggio”, da Mario Rosati. Ci fu molta improvvisazione, ma anche molta dedizione. Oggi, i nostri posteri emuli (i balestrieri, i corteanti, i valletti, le madonne, i musici, i bandieranti, i ceraioli organici, i capodieci elettivi) sono modelli di sincronia ed efficienza. Non sbagliano, girano sovente anche il mondo, vengono ingaggiati, sono famosi. Però si cominciò allora. Onore alla preistoria.”
Francobaldo Chiocci